La Nobildonna

La “Nobildonna” è stata l’incubo della mia infanzia. Quando nacqui, mia madre decise di impartirmi il nome di sua madre, Maria Maddalena, nome che, come si usava allora, si tramandava da nonna a nipote. Insieme mamma e papà decisero anche di affibbiarmi, come madrina, una conoscente dotata di titolo nobiliare. Una elegante signora, sempre vestita di seta nera, dal momento che pesava oltre 100 chili e sperava così di mimetizzarli. In entrambi i casi non mi fu concessa voce in capitolo. Probabilmente avrei protestato già da neonata.

Nacqui in casa, come allora si usava, e papà uscì per andare ad annunciare la mia nascita all’anagrafe. “Ricordati il secondo nome” gli grido mia madre dal letto all’ultimo momento. “Quale secondo nome?” borbottò lui fra sé e sé. Fu così che davanti allo sportello scelse “Olimpia”, il nome di sua madre. Al ritorno lo attendeva una dura reprimenda “doveva essere Alessandra, il nome del figlio, defunto, della madrina!” Strillò mia madre che non amava la suocera e riteneva invece importante la madrina.

Che fare? Salvarono capra e cavoli aggiungendo Alessandra ai nomi di battesimo. E con ciò fui “condannata alla madrina”. Ho sempre invidiato mia sorella, cui per madrina toccò proprio nonna Olimpia. La mia condanna si scontava in questi termini:

Una volta l’anno la nobildonna ci faceva visita. Per quel giorno il salotto brillava come uno swarowsky, come del resto noi bambine, e sul tavolo compariva un vassoio con bignè cannoncini e biscotti secchi. “Un bignè?” elemosinavamo io e mia sorella. ”Assolutamente no” diceva mia madre. “Ma non preoccupatevi, la madrina è a dieta, quindi mangerà solo i biscotti secchi. Quando se ne andrà, avrete tutti i bignè”. Mai profezia fu, anno dopo anno, più sbagliata. La balena in nero si mangiava tutti i bignè e a noi restavano i biscotti secchi. Sempre. A nulla valsero mai le preghiere del tipo “nascondiamone un paio per dopo?”

Una volta l’anno ero io a dover far visita alla madrina. Solo io. Senza famiglia. Mi lustravano come un cristallo, indossavo un “vestitino della festa” e mi veniva posto sul capo un grosso fiocco che mi faceva somigliare ad un uovo di Pasqua. Scarpine di vernice nera, calzine bianche. Papà mi accompagnava fino alla porta della madrina dove una cameriera in abito nero, crestina e grembiulino bianco –come nei film – mi accoglieva con un “Buongiorno, signorina Alessandra”. Era l’unico giorno dell’anno in cui portavo quel nome. Che peraltro mi sarebbe pure piaciuto. La balena in nero mi aspettava in salotto, dove dovevo sedermi su un cuscino ai suoi piedi e rispondere ad intelligenti domande del genere “Alessandra, ti piace la scuola?” Già da piccola capivo che a lei non importava nulla di me, come del resto a me nulla di lei.

Finite le domande di rito, era l’ora del the. Avevo sei- sette anni. Thè in tazze di fine porcellana, con il latte. Io odio il the con il latte. Forse per associazione con la madrina. I biscotti erano rigorosamente secchi. “Ricorda, diceva mia madre, devi mangiare tre biscotti. Non di più altrimenti penseranno che tu sia affamata. Non di meno, altrimenti penseranno che non ti piacciano”. Così era a quei tempi. Ne mangiavo tre e bevevo il the. Con il latte. Sapevo soffrire in silenzio.

Due volte l’anno, a Natale ed a Pasqua, dovevo scrivere alla madrina. A quel tempo ancora si scriveva. “Ci tiene tanto” dicevano i miei. Ho il sospetto che non fosse vero. Sulla busta era obbligatorio porre l’ “ND”, nobildonna, prima del nome. Sic. Comunque, essendo piccola, ogni volta chiedevo a mio padre di scrivere la lettera di auguri e lasciarmela poi copiare. Ma venne il giorno in cui papà si rifiutò. “sei grande” disse “devi imparare a scrivere da sola”. Una profezia? Lo pregai allora di scriverne ancora una, per l’ultima volta. Lo fece. Nascosi la copia nel cassetto delle “cose di scuola” e da allora, festa dopo festa, la ricopiai, senza nemmeno preoccuparmi di modificarla. Papà non se ne accorse mai, non le confrontava.

E venne, finalmente,  il giorno, dopo dodici anni di “tortura-madrina”, in cui quando mia madre disse “è ora di andare a trovare la madrina” trovai il coraggio di rispondere “Non se ne parla nemmeno”. A nulla valsero promesse e implorazioni. A nulla valse il falso “ti vuole bene” e nemmeno il tentativo “saresti sua erede”. Non la rividi mai più. Della Nobildonna mi resta solo l’avversione per il the al latte.

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